La giostra dell’Assemblea Onu e la profezia di Huawei

 

I leader mondiali sono chiamati a dire cosa rimane degli obiettivi comuni dell’Agenda 2030 per lo sviluppo sostenibile del Pianeta. Se quella strada, sottoscritta nel 2015, sia ancora praticabile

 

La profezia del fondatore di Huawei secondo cui “Il prossimo decennio sarà un periodo storico molto doloroso” è, a prescindere dalla veridicità della fonte (mai smentita o confermata), un vaticinio che aleggia nella sfera della finanza e rimbalza sul tavolo della diplomazia internazionale. Lo studioso Peter Turchin per arrivare alle stesse conclusioni si è servito di modelli matematico-statistici. Pessimismo abbracciato anche da Henry Kissinger: “Siamo sull’orlo di una guerra – con la Russia e la Cina – senza nessuna idea precisa di come andrà a finire o di dove dovrebbe portarci”, (Laura Secor, La Stampa). Per il vate della Realpolitik statunitense l’attuale situazione sarebbe in parte da imputare ad errori pregressi, fatti dall’Occidente. Mentre, per Turchin la causa andrebbe ricercata nello scontro tra élite.

 

È opinione diffusa che ci troviamo in un epoca distrofica. Un po’ di trasparenza, almeno in superficie, può venire dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, a New York sino al 22 settembre, dove le diverse e antitetiche linee guida della geopolitica globale si confrontano (e scontrano). E nessuno, solitamente, prevale. La 77° sessione del “parlamento universale” si apre con la presa d’atto che abbiamo fatto un pericoloso salto indietro nelle relazioni internazionali: il ritorno ai blocchi della Guerra Fredda disegna perfettamente le profonde distanze esistenti. Improbabile che il multilateralismo di Joe Biden, espressione della visione obamiana, l’imperialismo post sovietico di Vladimir Putin e il neo comunismo di Xi Jinping possano trovare un punto di convergenza o convenienza. Nel mezzo tra Nato e patto Cina-Russia una serie di potenze medie, dall’Ungheria alla Cambogia passando per le monarchie del Golfo, fluttuanti ed “indecise” a quale campo aderire. Optano strategicamente per l’ambivalenza, giocando una partita sulla difensiva. In realtà così facendo aumentano la deriva verso lo stato di caos permanente e testimoniano che ad essere venuta meno è la solidarietà tra le nazioni. Collassata difronte alla pandemia, che ci ha colto impreparati ed ha poi mostrato il lato peggiore delle disuguaglianze con la corsa alla scorte dei vaccini.

 

Senso del bene comune mancato persino nel sostegno alla lotta ai cambiamenti climatici. Dove prevale l’inazione dei governi mentre, gli effetti meteorologici, dal Pakistan alle Marche, purtroppo assumono caratteristiche devastanti ed apocalittiche. Nel palcoscenico dell’aula dell’Assemblea i paesi poveri e vulnerabili fanno quadrato intorno all’introduzione di una tassa sul clima, da usare come fondo perdite danni. È un appello alla responsabilità, e rappresenterebbe una vera novità.

 

E infine il sogno dell’integrazione pacifica derisa dalla guerra russa in ucraina, con le incognite che si porta dietro il conflitto oltre al suo indefinito esito: recessione, inflazione, crisi energetica ed alimentare. 40 stati sono oggi a rischio default, 50 milioni di persone vivono in carestia e 345 milioni sono precipitati nella povertà (World Food Programme). Numeri impietosi.

 

Questa settimana i leader mondiali convenuti al Palazzo di Vetro, per quanto consapevoli delle distanze in essere, sono chiamati a dire cosa rimane degli obiettivi comuni dell’Agenda 2030 per lo sviluppo sostenibile del Pianeta. La domanda che ci poniamo è se quella strada, sottoscritta in calce da 193 paesi nel 2015, alla luce dell’attuale evoluzione del contesto, sia ancora praticabile. Tra attriti permanenti o emergenti, rivalità, idiosincrasie ed oggettivi limiti il quadro non è assolutamente dei migliori. L’ordine mondiale non pare in grado di rigenerarsi, progredendo. Troppo sollecitato da forze repulsive e destabilizzanti. Se l’organo mondiale non saprà offrire soluzioni e recepire le opportunità, garantire prosperità e sicurezza, perderà sempre più di rilevanza.

 

L’Italia dal canto suo è diventata «il campo di battaglia per le trasformazioni del XXI secolo» (Maurizio Molinari, La nave di Teseo), e come tale investita simultaneamente di un doppio ruolo: teatro di competizione fra potenze e cartina tornasole del livello di resilienza dell’Europa. La nostra democrazia nel complesso sino ad ora ha retto, ma per natura (e storia) non siamo una fortezza invincibile.